Scrivere non è per me la vita, ma un gioco nella vita. E la mia condizione di scrittore è frutto di un intreccio di vissuti ed esperienze, professionali ed umane.
La mia creatività è una fase della mia esistenza, frutto della condizione di un periodo, nata dall’evaporazione e dal rifiuto di ogni simbolo d’autorità.
E’ il corsaro che c’è in me che ribellandosi all’ordine imposto ed al principio d’autorità genera entusiasmo, passione, sperimentazione, rottura di nessi logici ed ordinati del pensiero.
Il mio intento è giocare, sperimentare, proporsi e riproporsi, disfare, distruggere per poi ricostruire, ricominciare, annullare, riprogrammare.
La mia condizione? Sono un eterno studente che per poter vivere e sentirsi vivo non vuole mai arrivare alla meta di ogni studente, meta che sancirebbe la fine e non il fine.
Il mio sogno è continuare a sognare e non smettere mai di farlo, guadagnando meraviglia, senza aspettarsi mai nulla ma desiderando tutto: è un gioco nel gioco, il bisogno è tutt’uno con il desiderio, che si annuncia a me, fa capolino timidamente e poi divampa.
Io, eterno studente, pellegrino e viandante, odio l’anestesia del pensiero e dell’emozione, che non è altro che non-vita, torpore di vita, repressione dello stesso anelito alla vita.
Questo eros del pensiero, questa forza prorompente, ogni tanto si annuncia alla porta della mia mente ed è allora che nasce il mio bisogno di parole: così muore il non-detto e nasce “emoprossia”.
A volte la mia forza riconosciuta viene meno, ritorno bambino, fragile e debole pur nella dura scorza di maschera d’autosufficienza.
Il conflitto stride, si accende l’alterco tra il mio Sé ed il mondo, e così l’unico rifugio rimane la penna, generatrice di dolci illusioni pur nella adulta consapevolezza del “non sta bene” e del “non conviene”.
Da una parte stridore di emozioni e pensieri e polluzioni di rabbia, dall’altra la gioia ed il ristoro del foglio e della penna…monologhi e soliloqui, lingue diverse e diverse modalità espressive.
E il groppo in gola si dissolve…e desiderio, vita, passione mi governano.
“Giuseppe Pellegrino non vuole che quello che dice possa essere detto altrimenti.
Vuole che ogni parola sia definitiva, insostituibile, assoluta. Perché dentro ci ha messo tutto quello che ci voleva mettere; perché dentro ci ha messo gli entusiasmi e gli sfinimenti che lo hanno portato a scegliere quella parola e non un’altra, quel susseguirsi delle parole, quel ritmo, quella combinazione.
Così gli sono risalite dalla profondità della coscienza o del sub inconscio e così dovevano farsi concretezza.
Quello che dice è consapevolezza di destino, proviene dalle profondità dell’emozione, dalla lucidità della ragione, da un sentimento doloroso del tempo, da uno stupore di esistere, da una meditazione sui concetti”.